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DAVID “CHIP” REESE: UNA MENTE BRILLANTE NATA PER VINCERE


chip reese

Nel firmamento del poker professionistico, pochi nomi evocano la stessa reverenza di David Edward “Chip” Reese. Figura in apparenza schiva e lontana dai riflettori, Reese era in realtà venerato dai colleghi: il campione Daniel Negreanu lo definì “il vero re del poker", e molti lo consideravano il più forte giocatore di cash game di tutti i tempi.

La sua è la storia di un predestinato, un ragazzo prodigio del gioco d’azzardo divenuto maestro indiscusso del poker e persino protagonista nell’élite delle scommesse sportive.

Con il suo stile sobrio e intelligente ha influenzato il poker moderno, guadagnandosi un posto precoce nella Poker Hall of Fame e un rispetto unanime che trascende le generazioni.


Dal bambino prodigio al giovane campione

Nato nel 1951 a Centerville, Ohio, Chip Reese mostrò sin da piccolo un talento fuori dal comune per le carte e i giochi. Costretto a casa per quasi un anno da una grave febbre reumatica durante le elementari, imparò dalla madre a giocare a poker e altri giochi da tavolo.

Quel periodo segnò la sua formazione: a soli sei anni batteva già ragazzi molto più grandi a carte, e alle superiori eccelleva sia nello sport (giocò a football americano) sia nei dibattiti, arrivando a vincere un campionato statale di oratoria.

Studente brillante, rifiutò un’offerta di Harvard e scelse il Dartmouth College per la sua formazione universitaria.

Qui continuò a coltivare la sua passione per il poker, organizzando partite con compagni e persino professori.

Si narra che il suo club universitario abbia dedicato la sala di gioco proprio a lui, ribattezzandola “David E. Reese Memorial Card Room” in onore delle sue leggendarie maratone di partite tra studenti.


Nel 1974, laureatosi in economia a Dartmouth, Reese era in procinto di iscriversi a un prestigioso programma post-laurea a Stanford.

Ma prima decise di concedersi un viaggio a Las Vegas – una semplice vacanza, nelle sue intenzioni. Con sé aveva 400 dollari; in poche settimane li trasformò in circa 60.000 dollari, vinti giocando a poker nella città del peccato.

Di fronte a un talento e a profitti così immediati, Reese capì che quella sarebbe stata la sua strada: Stanford poteva attendere, perché non poteva “permettersi di non restare a Las Vegas”.

Fu l’inizio di una nuova vita.


Da neo-ventenne appena arrivato nell’Oasi del Nevada, Reese sorprese subito i veterani: trovò che persino alcuni tra i giocatori più ricchi e famosi commettevano errori fondamentali nel Seven Card Stud – la specialità in cui lui eccelleva – e non mancò di approfittarne.

Nella metà degli anni ’70 vinse oltre 2 milioni di dollari ai tavoli cash, una fortuna per l’epoca, imponendosi rapidamente come un fenomeno della Strip.


Il soprannome “Chip” (letteralmente, fiche) divenne sinonimo di abilità ai tavoli.

L’astro nascente dell’Ohio strinse amicizia con Doyle Brunson, leggenda del poker texano, che riconobbe in lui un talento raro.

Tanto che proprio Brunson chiese a Reese di contribuire al suo libro Super/System – bibbia strategica del poker – affidandogli la stesura del capitolo sul Seven Card Stud.

Sul fronte agonistico, intanto, arrivavano i primi allori: Chip Reese colse il successo alle World Series of Poker sin da giovane, vincendo un braccialetto nel 1978 (evento Seven Card Stud Hi-Lo) e bissando nel 1982 con un altro titolo nel Seven Card Stud.

In un’epoca in cui il poker da torneo era ben lontano dai montepremi multimilionari odierni, Reese emerse come uno dei volti nuovi più rispettati del circuito.


Tra poker e scommesse: gli anni ’80 e il Computer Group

All’apice del successo ai tavoli, Reese diversificò le sue attività nel mondo del gioco. A soli 28 anni divenne manager della poker room del rinomato Dunes Casino di Las Vegas, incarico che ricoprì per cinque anni.

Ma soprattutto, all’inizio degli anni ’80, entrò in un giro esclusivo che avrebbe anticipato di decenni l’era dei tipster professionisti e delle scommesse sportive algoritmiche.

Chip Reese fu infatti tra i protagonisti del celebre “Computer Group”, un sindacato di scommettitori sportivi che per primo applicò metodi informatici e analisi matematiche alle puntate sulle partite.

Insieme a figure poi leggendarie come Billy Walters, questo gruppo sfruttò modelli computerizzati per individuare quote favorevoli, piazzando centinaia di giocate al giorno e generando vincite milionarie.

Reese, già noto come fine intenditore di baseball e handicapper esperto, mise a frutto la sua intelligenza analitica anche fuori dal poker, dimostrando una versatilità rara nel panorama del gambling professionistico.


In quegli anni, Chip continuò comunque a dominare ai tavoli da poker cash di Las Vegas.

Preferiva le partite high stakes di Seven Card Stud, dove la sua maestria tecnica e sangue freddo gli permettevano di affrontare chiunque: “Se le condizioni sono quelle giuste, posso giocare contro chiunque”, affermò una volta.

Ma oltre alle abilità di gioco, Reese aveva un altro asso nella manica: il carattere.

Era celebre per il suo approccio cordiale e accomodante, che metteva a proprio agio sia i professionisti sia i facoltosi uomini d’affari o turisti di passaggio al tavolo.

Con il sorriso tranquillo e i modi garbati, Chip sapeva creare l’atmosfera ideale perché tutti fossero invogliati a giocare (e a puntare forte) contro di lui.

Questo atteggiamento, insieme a un’imperturbabilità quasi zen – non si lasciava mai andare a scatti d’ira o a gesti di frustrazione – gli guadagnò un’immensa credibilità e fiducia nel mondo del gioco.

Nel gergo dei gambler, Reese era considerato “100% classe”, uno che onorava sempre la parola data e gli impegni di gioco, qualità non scontate in un ambiente spesso spietato.


Maestro del cash game e ingresso nella Hall of Fame

Mentre accumulava fortune nel cash game e successi personali, Reese manteneva un profilo relativamente basso rispetto ad altri poker pro più mediatici.

Alla metà degli anni ’80 decise di rallentare la propria partecipazione ai tornei per dedicarsi alla famiglia: trasferitosi sulle colline di Las Vegas, preferì il ruolo di padre presente a quello di globe-trotter dei circuiti internazionali.

La scelta fu resa possibile dai lauti guadagni accumulati e dalla sua capacità di gestire il bankroll con disciplina. Chip Reese aveva tre figli e non esitava a prendersi pause dal gioco per non perdersi i momenti importanti della loro crescita.

“Era un padre di famiglia come nessun altro nel poker” ricorda l’amico Barry Greenstein, sottolineando come Reese fermasse qualsiasi partita pur di assistere a una partita di baseball o a un saggio dei figli, un lusso che molti colleghi gli individuavano.


Parallelamente, la fama di Reese continuava a crescere tra gli addetti ai lavori.

I grandi del poker lo consideravano un punto di riferimento assoluto. Nel 1991, a soli 40 anni, Chip fu onorato con l’ingresso nella Poker Hall of Fame, diventando all’epoca il più giovane di sempre a ottenere questo riconoscimento.

Per tutti, era la consacrazione ufficiale di un fenomeno: un giocatore capace di eccellere in ogni specialità, dotato di un istinto infallibile per il gioco e di una professionalità irreprensibile. In quel periodo Reese si concentrò sulle ricche partite cash della Bobby’s Room (la celebre high-stakes room del Bellagio) e sulle scommesse sportive, attività che gli garantivano entrate costanti e ben superiori ai premi dei tornei dell’epoca.

Il suo nome divenne sinonimo di autorevolezza al tavolo: qualsiasi partita high stakes acquisiva prestigio se vi sedeva Chip Reese, e nelle sale da poker di Las Vegas la sua presenza imponeva rispetto. I colleghi ammiravano la sua calma olimpica – Reese non andava mai in tilt, nemmeno dopo una brutta sconfitta – e la generosità con cui dispensava consigli e bankroll a giocatori in difficoltà.

Nel mondo del poker professionistico, spesso popolato da eccentrici e personaggi sopra le righe, Chip era il gentiluomo per eccellenza, sempre educato e riluttante alla scena, ma in grado di mettere d’accordo chiunque sul fatto che fosse uno dei migliori di sempre.


Il ritorno in scena e la vittoria storica al $50.000 H.O.R.S.E.

Dopo quasi un decennio lontano dalle competizioni maggiori, all’inizio degli anni 2000 Reese tornò a frequentare i tornei di poker, spronato – si dice – proprio dai figli, curiosi di vedere il papà in televisione tra i campioni del circuito.

Nel 2004 ricominciò a partecipare a eventi prestigiosi e in pochi anni centrò diversi piazzamenti a premio, dimostrando di non aver perso il tocco.

Il culmine di questo comeback fu l’estate 2006, quando le World Series of Poker introdussero per la prima volta un torneo dal buy-in stratosferico di 50.000 dollari, formato H.O.R.S.E. (una combinazione di Texas Hold’em, Omaha Hi-Lo, Razz, Seven Card Stud e Stud Hi-Lo). Era di fatto il Campionato del Mondo dei mixed games, pensato per incoronare il giocatore più completo del pianeta.

All’evento si iscrissero 143 tra i più grandi specialisti e fuoriclasse del poker mondiale – nomi del calibro di Doyle Brunson, Phil Ivey, Barry Greenstein, T.J. Cloutier, Patrik Antonius – e dopo giorni di battaglia approdarono al tavolo finale campioni affermati di ogni disciplina.


Eppure, nessuno si sorprese nel vedere Chip Reese trionfare su tutti.

In heads-up affrontò il preparatissimo Andy Bloch in un duello durato oltre sei ore e 286, il testa a testa più lungo nella storia delle WSOP fino ad allora.

Alla fine Reese alzò le braccia al cielo, conquistando il titolo, la terza ambita bracelet WSOP della sua carriera e un premio di $1.784.640.

Quella vittoria – nell’evento più difficile e prestigioso, contro un parterre di fenomeni – fu accolta dagli addetti ai lavori come la definitiva consacrazione di Reese nell’Olimpo del poker.

“Ha confermato ciò che sapevamo: Chip è probabilmente il più grande giocatore all-around mai esistito” commentò celebrativamente il noto announcer Mike Sexton.

Lo stesso Doyle Brunson e altri veterani erano entusiasti nel vederlo trionfare in un torneo così impegnativo, considerandolo il coronamento naturale di una carriera straordinaria.

Da quel momento, il trofeo destinato al vincitore del $50.000 H.O.R.S.E. (divenuto poi Poker Players Championship) avrebbe portato per sempre il suo nome: “Chip Reese Memorial Trophy”, un omaggio alle sue imprese pokeristiche e al contributo che diede al gioco.


Personalità, rispetto dei pari ed eredità culturale

Malgrado i trionfi, Chip Reese non fu mai un personaggio sopra le righe.

Non lo seducevano né la fama né gli eccessi: per lui il poker era un mestiere, una professione redditizia costruita su talento, disciplina e freddezza. “Posso puntare 100.000 dollari e non provare alcuna sensazione.

Se pensi al significato dei soldi, sei finito” diceva, spiegando come la chiave del successo fosse eliminare l’emotività dal valore del denaro.

Questa filosofia gli permise di mantenere lucidità dove altri perdevano la testa, ma rifletteva anche uno scopo più profondo.

Reese infatti ribadiva che l’obiettivo del gioco non era il brivido in sé, bensì vincere per vivere meglio e prendersi cura della famiglia.

In ciò stava la grande differenza tra lui e altri geni del poker come Stu Ungar, spesso paragonato a Reese per talento puro ma divorato dai propri demoni: “Stuey non ha mai capito lo scopo di questo gioco... Tutto quello che ha fatto è stato rischiare il massimo ogni giorno per poi perdersi nella droga”, osservò una volta Chip con schiettezza.

Lui invece vedeva il poker e il gambling come una carriera sostenibile, da affrontare con professionalità e senza farsi consumare dai vizi.


La comunità pokeristica mondiale ebbe modo di apprezzare queste qualità umane oltre che tecniche.

Il 4 dicembre 2007 Reese morì nel sonno, stroncato a 56 anni da un arresto cardiaco legato a una grave polmonite.

La notizia colpì profondamente l’ambiente: “il mondo del poker si svegliò con shock e tristezza” titolarono i giornali, e alle sue esequie a Las Vegas accorsero in massa colleghi e amici di una vita – da Doyle Brunson a Bobby Baldwin – per rendergli omaggi.

Le manifestazioni di cordoglio furono unanimi, così come i riconoscimenti postumi.

Oltre a intitolargli il trofeo del Poker Players Championship, le WSOP istituirono un premio alla memoria di Reese da assegnare ai giocatori che incarnavano al meglio le doti di professionalità e correttezza che Chip portò ai tavoli.


Oggi, a quasi due decenni dalla scomparsa, il nome di Chip Reese resiste come sinonimo di eccellenza nel poker.

La sua leggenda vive nei racconti dei veterani e nell’ispirazione che offre ai nuovi talenti: esempio di come si possa raggiungere il vertice senza clamori, mantenendo integrità e passione autentica per il gioco.

In un’era di poker televisivo e nuove star, la figura di Reese ricorda le radici classiche di questo mondo – un campione gentiluomo capace di sedersi con chiunque e uscirne vincitore col sorriso, senza mai tradire emozione.

“Chip ha vissuto una vita leggendaria, da film, che sarà ricordata finché si giocheranno carte”, scrisse un cronista americano.


La sua eredità sportiva e culturale risiede proprio in questo: nell’aver mostrato che il vero oggetto del gioco è la credibilità costruita col talento e con l’onore, qualcosa che vale più di qualsiasi piatto vinto e che sopravvive al passare del tempo.

 
 

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